La Suprema Corte, con una recente decisione del 5 luglio scorso, ha affermato che la vendita o la trasformazione della cosa affetta da vizi non è, per sé sola, atta ad escludere il diritto del compratore ad agire per l’azione di risoluzione del contratto di compravendita per i vizi esistenti sulla cosa e di risarcimento del danno.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, affinché la vendita e/o la trasformazione della cosa escludano che l’acquirente possa chiedere la risoluzione del contratto, il compratore deve aver tenuto un comportamento che dimostri, in modo inequivocabile, l’accettazione della res compravenduta e dei vizi che affliggono la stessa.

Pertanto, il Giudice, chiamato a pronunciarsi su una domanda di risoluzione, nell’ipotesi in cui ritenga tale domanda inammissibile, deve motivare in modo specifico quale comportamento del compratore abbia comportato una implicita accettazione dei vizi della cosa e la conseguente implicita rinuncia a chiedere la risoluzione del contratto e la restituzione del prezzo.

Chiaramente, infatti, gli Ermellini sottolineano che “‘l’alienazione o la trasformazione della cosa affetta da vizi, di per sé, non è sufficiente ad escludere a favore del compratore l’azione di risoluzione del contratto per vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1492, comma 3, c.c. occorrendo a tal fine che quel comportamento evidenzi univocamente come l’acquirente abbia inteso accettare la cosa. Nel caso in cui l’azione di risoluzione per vizi, nonostante il perimento del bene, non sia preclusa, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1492 c.c., all’obbligo della restituzione specifica dei beni periti si sostituisce quello della restituzione per equivalente, che opera in via automatica, senza necessità di una specifica domanda da parte dell’acquirente”.

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